Dall'Eco di Bergamo di oggi (p. 43): qualche estratto dell'intervista al filosofo della scienza Evandro Agazzi.
Ormai stiamo
studiando il cervello aprendo la scatola cranica, costruiamo robot con
sembianze umane...
«Anche questi
progressi devono risvegliare il nostro senso critico. Ho da poco tenuto una lezione sull’intelligenza
artificiale in cui ho ripreso un mio vecchio articolo del 1967: fin da
allora indicavo chiaramente quali sono i limiti in questo tipo di ricerche, gli
aspetti dell’intelligenza umana che nessuna macchina riuscirà mai a imitare. Ad
esempio quella che in filosofia si chiama “intenzionalità”: la capacità dell’uomo
di introiettare il mondo sotto forma di rappresentazione.
E mentre l’animale si
può rappresentare solo il mondo fisico, l’uomo si rappresenta anche l’astratto,
il possibile, il futuro, il desiderio, il bene e il male, i valori. Tutto
questo non si può tradurre in “operazioni”. Questo caveat vale anche oggi, le ricerche che stiamo facendo sull’intelligenza
sono importantissime ma non è il cervello che pensa, siamo noi che pensiamo
grazie al fatto che, fortunatamente, abbiamo un cervello evoluto.
Nei giorni
scorsi proprio qui a Bergamo, al convegno Città Impresa Federico Faggin, l’italiano
inventore (in America) dei chip che fanno funzionare tutti i nostri sistemi
informatici, ha detto con chiarezza la stessa cosa: per quanto affascinante, l’evoluzione
dell’intelligenza artificiale non avrà mai a che vedere con l’intelligenza
umana.
«Una cosa deve
essere chiarissima: l’intelligenza artificiale è un problema di ingegneria. Gli
avanzamenti dell’intelligenza artificiale si ottengono con progressi di
calcolo, di cibernetica, di scienza dell’informazione, non approfondendo la
conoscenza della nostra psiche. La macchina attraverso i suoi algoritmi fa, in
un piccolo campo, mille volte meglio di quello che riusciamo a fare noi. Ma
questo non ha niente a che vedere con la natura della nostra attività anche
solo di percezione».
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